Che il nostro settore sia soggetto a repentini, talvolta disruptivi cambi di paradigma sembra una realtà assodata, quasi un luogo comune. Ma è davvero così? I CAT tool, alla loro comparsa, imposero sì un nuovo modo di lavorare, a fornitori di servizi linguistici e traduttori, concorrendo ad abbattere i costi. Ma nessuno percepì tale cambiamento come qualcosa di veramente pericoloso per la professione linguistica, piuttosto come un cambiamento tecnologico a cui tutti, volenti o nolenti, avrebbero dovuto adattarsi. Ciò che abbiamo davanti (ma ormai anche dietro, visto che ci navighiamo letteralmente dentro) è questa volta un vero cambio di paradigma, che getterà le basi a ciò che saranno i servizi linguistici da qui ai prossimi decenni.
Siamo giunti fino a qui grazie allo sviluppo di meravigliose tecnologie. E alludo, ad esempio, alle reti neurali applicate alla Machine Translation e all’intelligenza artificiale generativa applicata sia alla traduzione sia alla creazione di contenuti. Tutti i settori possono essere coinvolti da queste nuove tecnologie. Di recente, gli sceneggiatori statunitensi stanno portando avanti una battaglia sindacale per regolamentare e limitare l’uso dell’intelligenza artificiale generativa nel settore cinematografico. Se, una volta, l’automazione interessava perlopiù attività manuali, oggi l’AI sta entrando in un ambito percepito come “sacro”: la creatività dell’essere umano.
Il messaggio che vorrei portare avanti in questo mio breve contributo è diretto e semplice, sebbene possa essere percepito come polemico (e in effetti un po’ lo è): non sarebbe ora di smetterla di blandire i traduttori ed enfatizzarne l’importanza per il nostro settore, quando gli investimenti sono massicciamente rivolti all’obiettivo di sostituirli con le macchine? We believe in humans, questo è il famoso slogan di Translated, tra le aziende fornitrici di strumenti e soluzioni per la traduzione leader nel settore. Ma è davvero così? La risposta non può che essere negativa. Noi crediamo alle macchine, questo sarebbe lo slogan più giusto (e sincero).
La condizione dei traduttori freelance: insights dal mercato italiano
Recentemente, abbiamo portato avanti un sondaggio rivolto alla nostra community online di traduttori freelance in Italia. Abbiamo posto diverse domande, tra cui il trend di fatturato degli ultimi anni, l’adozione della Machine Translation, le aspettative per il futuro, il numero e tipo di corsi formativi seguiti ecc. Tutti i risultati saranno pubblicati in un report dettagliato, qui mi limiterò a riportare quelli salienti. Che non sono, ahimè, positivi.
Il campione di rispondenti è stato di 138 individui, che possiamo ritenere abbastanza rappresentativi dell’intera popolazione di traduttori freelance in Italia. Il 93,4 percento dei rispondenti è di genere femminile.
Una buona parte dei rispondenti dice essere nel settore dei servizi linguistici da 1 a 5 anni (il 42,3%), da 6-10 anni il 19%. Solo l’8% dichiara di essere nel settore da più trent’anni.

Abbiamo chiesto ai partecipanti al sondaggio il loro trend di fatturato negli ultimi anni e solo il 27,7% ha dichiarato un aumento del fatturato. La maggioranza relativa (40,9%) ha riferito di una riduzione del fatturato, la porzione restante riporta una situazione stazionaria.

È degno di nota vedere come la maggior parte delle persone (43,9%) dichiari una riduzione di fatturato maggiore del 20%.

I motivi alla base della riduzione del giro d’affari sono stati il rifiuto di accettare tariffe ritenute basse, la riduzione del flusso di lavoro e la difficoltà a trovare clienti nuovi.

Ma la cosa che più colpisce è stata la risposta dei rispondenti alla domanda “Stai considerando di abbandonare la professione?” Come evidente dal grafico, quasi un quarto dei rispondenti ha dichiarato che sta pensando di abbandonare la professione di linguista.

Aneddoticamente si riscontra in Italia il desiderio dei traduttori di regolamentare il settore dei servizi linguistici (sindacalizzazione, tariffe minime, condizioni standard di servizio). Come risulta evidente, il nostro sondaggio ribadisce questo desiderio: quasi il 90% dei rispondenti si dichiara a favore di una certa regolamentazione del settore.

Cosa certamente triste, la maggioranza dei rispondenti sconsiglierebbe a un giovane la carriera del traduttore.
Stipendi bassi: questo è il problema
Come noto, in Italia gli stipendi sono relativamente più bassi rispetto a quelli in altri paesi sviluppati. La professione linguistica in libera professione non fa eccezione. Dal nostro sondaggio emerge come più di un quarto dei rispondenti fatturino fino a 10.000 euro l’anno. Un altro quarto dei rispondenti dichiara fatturati annui tra 20.000 e 30.000 euro. Solo il 13% circa dichiara un reddito lordo tra 35.000 e 40.000 euro. Una quota assai minoritaria di rispondenti dichiara fatturati sopra i 40.000 euro. Solo 6 persone (4,6%) dichiara redditi superiori ai 60.000 euro. Nota per chi non sia avvezzo al carico fiscale italiano: non andiamo molto lontani dal vero dicendo che per ottenere il reddito netto da questi redditi lordi sia sufficiente farne la metà.
Malgrado questi dati di fatturato, buona parte dei rispondenti (61,8%) non si dichiara attratto da un lavoro come dipendente. Ciò perché, presumibilmente, è percezione comune che anche gli stipendi degli impiegati negli LSP italiani non siano così attraenti.
Quanti traduttori sono necessari al settore?
Ci si potrebbe porre una domanda: sono forse troppi i traduttori in Italia? Se questo fosse il caso, il mercato attuale non avrebbe una domanda sufficiente a “produrre” stipendi dignitosi per la stragrande maggioranza dei freelance.
Oppure potrebbe esserci un problema di produttività (fatturato/ora). Voglio dire: se un freelance in una giornata lavorativa tipo di 8 ore non riesce a fare, in media, 400-600 euro (50-75 euro l’ora), non possiamo legittimamente pensare che la professione del traduttore sia una professione dopotutto poco attraente, se non addirittura “povera” (come risulta dai dati del sondaggio)?
Sia un caso o un altro, il sistema educativo dovrebbe prendere atto della situazione ed escogitare un’offerta formativa al passo coi tempi e con la domanda delle aziende. Non mi risultano esserci percorsi formativi universitari rivolti a formare Project Manager o Vendor Manager, ad esempio, ossia figure professionali assai richieste dalle aziende. Ciò non toglie tuttavia il prendere atto di una situazione che appare molto chiara a chi scrive, ossia che il lavoro di traduttore stia lentamente perdendo le caratteristiche di una professione da svolgersi full-time, e si stia trasformando in un’attività da affiancare ad altre più remunerative e sicure.
Dagli umani alle macchine: c’è un rischio oligopolistico nel settore linguistico?
Se, nel settore dei servizi linguistici, non sono pochi i casi di tecnologie open-source, ciò nondimeno le infrastrutture tecnologiche e le competenze per creare da tali tecnologie soluzioni vendibili sono appannaggio di pochissimi player internazionali. Ammesso questo, potrebbe esserci la reale prospettiva di una redita monopolistica o oligopolistica a vantaggio di questi pochi soggetti, con tutti gli effetti negativi della formazione di monopoli o, in questo caso, di oligopoli. Si configgerebbe quindi una specie di “signoraggio tecnologico” con, da una parte, i prezzi stabiliti dagli oligopoli e, dall’altro, la generale tendenza alla “uberizzazione” del lavoro del linguista.
Io non sto prendendo una posizione morale, piuttosto sto cercando di capire ciò che accade e di intuire ciò che potrebbe accadere. Evitare di indulgere (spesso a meri fini d’autopromozione e di marketing) a una narrativa enfaticamente ottimistica, e, in certi casi, retorica e, in ultima analisi, falsa, è necessario per comprendere meglio la realtà. Non dico che il settore linguistico non avrà un futuro radioso, dico solo che i “dividendi” di tale futuro non saranno equamente distribuiti. I futuri oligopolisti avranno di sicuro di che essere ottimisti. Ma possiamo dire la stessa cosa dei traduttori?