Verso un umanesimo nei servizi linguistici
Sono cresciuto nella convinzione, d’altronde suffragata da ciò che vedevo in famiglia, che i “padroni”, come talvolta si diceva in Italia (almeno nei bassi strati sociali), i datori di lavoro insomma, fossero letteralmente nemici e sfruttatori dei loro dipendenti. Io, in quanto appartenente a un basso strato sociale (mia madre e mio padre, immigrati dal sud d’Italia negli anni Cinquanta, erano entrambi “persone che lavoravano con le mani” e nessuno dei due aveva ottenuto un diploma di scuola media superiore), ho accettato questa circostanza come un dato di natura, contro cui non potevo fare letteralmente nulla. Alle mie orecchie suonava come vuota retorica il richiamo (molto spesso delle istituzioni) all’importanza dello studio e alla concordia sociale: ciò che vedevo attorno a me era semplicemente immobilità sociale e sfruttamento del lavoro, in cui l’asimmetria tra potere datoriale e dipendenti non poteva essere più accentuato.
Per una congiura di fatti del tutto casuali, irripetibili e fortunosi, dopo un cursus honorum nelle scuole secondarie per nulla onorevole (non sono mai stato uno studente modello), sono riuscito a laurearmi in scienze biologiche a pieni voti. Si noti che, in Italia, ma anche in altri paesi Europei, la mobilità sociale è molto bassa. Nel mio paese, ad esempio, solo il 18% dei laureati proviene da famiglie in cui nessuno dei genitori ha un diploma di scuola media secondaria, come era il mio caso (IlSole24Ore). Solo dopo aver interrotto un dottorato di ricerca cominciai a “farmi le ossa” nel mondo dei servizi linguistici, prima come dipendente, poi come libero professionista. La voglia di lavorare ma, soprattutto, la paura di non riuscire a sopravvivere (non avevo nessun “angelo in paradiso” a proteggermi le spalle, ed ero già sposato con due figli) furono le molle che mi spinsero a non rifiutare mai un lavoro, ad accettare tariffe basse, a lavorare sempre, sabati e domeniche inclusi, e a differenziare i servizi (mi occupavo anche di medical writing e formazione). In seguito, fortunatamente, il lavoro crebbe così che dovetti scegliere tra due alternative: restare freelance, e cominciare a rifiutare lavori che non riuscivo a fare; o assumere una persona. Dato che non avevo nulla da perdere, assunsi una persona, che sarebbe stata la prima traduttrice in-house di ASTW, Letizia Merello. Fu l’inizio di una bella avventura, che oggi è sostanziata da, io credo, una bella realtà aziendale: ASTW. Qualcuno obietterà: “Ecco un altro tronfio, piccolo proprietario di un LSP che sbrodola i suoi traguardi urbi et orbi”. Da par mio chiederei all’importuno interlocutore di stemperare la propria improntitudine e di avere un poco di pazienza, poiché questo lungo preambolo è stato necessario per parlare di una cosa che mi sta a cuore e che forse troverà d’interesse.
Questa riflessione, che covava in me da un bel po’ di tempo, ha trovato modo di precisarsi meglio vedendo la discussione avviata in un post della traduttrice freelance María Scheibengraf. María si lamentava dalle bassissime tariffe proposte da un LSP, ma, in particolare, dalla discussione emerse la contradizione (“l’ipocrisia”, come alcuni scrissero) tra millantate virtù aziendali e reali pratiche professionali di alcuni (ma a quanto pare molti) Language Service Provider. In altre parole, molti LSP si “vantano” nei social network di curare attentamente il rapporto coi loro traduttori freelance, di esserne partner piuttosto che datori di lavoro, e di rispettarne il valore umano e professionale, quando, invece, la realtà è decisamente diversa. Ovviamente, come si dice in Italia, “le bugie hanno le gambe corte”, e millantare rapporti idilliaci coi traduttori quando, invece, le cose sono decisamente (e sgradevolmente) diverse, oltre a essere una pratica deontologicamente censurabile, è anche una tattica di marketing che presta il fianco a un sicuro fallimento. Nei social network ma anche nei passaparola, i traduttori si passano notizie, scambiano informazioni e, prima o poi, queste “ipocrisie” diventano, come si dice in Italia, il “segreto di Pulcinella”, ossia un segreto che segreto non è più. Io mi permetto di dare il mio punto di vista che si giova dall’essere stato sia dalla parte dei cosiddetti “sfruttati” sia dalla parte dei cosiddetti “sfruttatori”. Qui mi permetterò di dare consigli ad entrambe le parti in causa.
Prima di tutto, mi permetto di rivolgermi ai traduttori. Nella discussione di María Scheibengraf, Ed Vreeburg, definisce i CEO elencati nell’elenco dei 10 maggiori influencer nel settore della localizzazione di Nimdzi in questo modo: “the entire top 10 consists of a bunch of megalomaniac money grabbers”, espressione piuttosto colorita che mi ha fatto ridere. Ad Ed ma anche a tutti i traduttori vorrei far presente che il nostro lavoro, ossia quello di essere a capo di aziende di servizi linguistici in un settore esposto a notevoli spinte concorrenziali e totalmente deregolamentato, non è per nulla semplice. Al netto delle differenze, spesso sostanziali, di business environment e carico fiscale in cui ci si trova ad operare (in Italia, ad esempio, sembra che si faccia di tutto per ostacolare la crescita delle aziende, ma questo è un altro discorso), i responsabili degli LPS, che sono, nella maggior parte dei casi, piccole-medie aziende, devono saper affrontare e padroneggiare, spesso da eterni apprendisti, argomenti quali: contabilità analitica, massimizzazione dell’EBITDA, pianificazione fiscale, pianificazione e controllo, marketing, risorse umane, rischi valutari e di altra natura, business plan, M&A, investimenti, ecc. Come si può ben capire, è irrealistico, se non pressoché inumano pretendere da una singola persona, che spesso non ha una formazione in Business Administration, possa padroneggiare tutte queste competenze. E di fatti, nessuno dei CEO di piccoli LSP è un Pico della Mirandola, insomma nessuno è così competente. È anzi molto spesso carente in molti di queste skills, e per questo motivo (se lo permette la crescita dell’azienda) pian piano delegherà ad altre figure alcune, se non molte di queste attività. Questo è del tutto normale, specie in un’azienda che cresce. Ma faccio notare che, spesso, nei momenti di crescita sostenuta ma, soprattutto, di lenta transizione da una grandezza aziendale a un’altra, nella mani del CEO si concentrano ancora molte di queste responsabilità, il che crea problemi psicologici in termini di stress, senso di inadeguatezza e inestirpabile sindrome dell’impostore. A loro volta questi problemi possono avere effetti sul funzionamento dell’azienda: per mancanza di tempo, energie e competenze, si trascurano cose importanti a vantaggio di altre, e questo crea un disarmonico sviluppo aziendale, ingenerando, a sua volta, maggiore stress e pressione psicologica sul CEO, in un circolo vizioso che si autosostiene. Sento già chi, dall’altra parte della barricata, dalla parte dei cosiddetti “sfruttati”, dice: “Be’, questo qui sta cercando di convincerci che le tariffe indecenti sono causate dal fatto che i CEO sono stressati!”. No, non intendo questo, non cerco scuse o alibi a certi comportamenti: vorrei solo trasmettere una consapevolezza che io, quando ero dalla parte dei cosiddetti “sfruttati”, non avevo, perché ero ben all’interno della mia “bolla degli sfruttati”: i CEO fanno un duro lavoro, sono esposti al pericolo del fallimento (per il quale, se sono i fondatori e proprietari, rispondono personalmente con le proprie sostanze), non hanno mai un momento di reale pausa dal lavoro, e molti sono soggetti a ciclici burnout.
Una cosa che ho notato nel post di María Scheibengraf è che nessuno ha citato a chiare lettere chi fosse il CEO e quale fosse l’azienda in questione. Perché tutto questo? Omertà, paura di rappresaglia o di denuncia? Un’idea: perché non fare un sito web in cui raccogliere tutte le informazioni sugli LSP, una specie di Language Service Provider Advisor, in cui ciascun traduttore freelance può mettere informazioni e commenti su tariffe, qualità della collaborazione con l’azienda, tipo di progetti ecc.? Non credo proprio che la soluzione possa essere la formazione di un sindacato dei traduttori (che dovrebbe essere mondiale, visto il tipo di mercato) né quello di stabilire tariffe ex lege. Tuttavia, divulgare queste informazioni, in modo aperto e senza censure, sugli LSP potrebbe indurre gli stessi ad adottare comportamenti migliori.
Ma il livello delle tariffe è dettato dal mercato e, spesso, dai grossi player internazionali che concentrano una buona porzione della domanda mondiale di servizi di traduzione e localizzazione. Spesso, gli LSP piccoli, essendo in basso rispetto alla catena di creazione del valore, hanno forti vincoli alle tariffe che possono riconoscere ai propri collaboratori, né possono agire troppo sull’aumento dell’efficienza aziendale per recuperare margine. Cosa fare, quindi? Personalmente, e qui mi rivolgo ai CEO di piccoli-medi LSP, ai cosiddetti “sfruttatori”, una scelta possibile potrebbe essere quella di rivolgersi pian piano a settori di nicchia a maggiore valore aggiunto, più preziosi per i clienti e più difficilmente automatizzabili (in cui, ad esempio, la Machine Translation dà risultati comparativamente peggiori), e di abbandonare pian piano quelli a minore valore aggiunto. Per far ciò, ossia per trovare spazio in nicchie più ricche, è necessario avere cultura, investire nella formazione dei dipendenti, accettare (forse) un limite fisico alla dimensione aziendale raggiungibile e, ovviamente, uscire dalla propria zona di comfort. Forse non supereremo la dimensione di boutique o non faremo il fatturato a otto cifre, ma avremo creato una realtà solida e di valore (anche per eventuali exit, ingresso di soci o di fondi di venture capital) e più fair rispetto ai nostri collaboratori. E così non incorreremo nelle “ipocrisie” di millantate virtù aziendali, di buoni sentimenti, di storie tanto melense quanto, in ultima analisi, false che infestano incautamente i profili aziendali di aziende che operano nel settore dei servizi linguistici.
In conclusione, io credo che, sebbene suoni utopistico, tra LSP e freelance possa crearsi un clima di maggiore e sostanziale collaborazione. Le categorie di “sfruttati” e “sfruttatori”, di “padroni” e “sottoposti”, sono ormai stantie e non più adatte a descrivere correttamente le nostre realtà produttive. Le nostre non sono più economie produttive basate sul fordismo novecentesco ma sull’economia della conoscenza: i policy maker dovrebbero capire che l’unico modo per ridurre le frizioni sociali è di aumentare il livello di cultura media della popolazione, e di investire di più e meglio in scuola, università e ricerca. Il clima di esasperata contrapposizione politica dei decenni passati ha causato gravi danni in molti paesi, soprattutto in Italia: una via per una migliore e più proficua collaborazione dovrebbe prima di tutto passare per il reciproco apprezzamento del lavoro di tutti, siano essi i CEO o i dipendenti delle aziende. Ma anche per l’organizzata e deliberata ricerca di una strategia aziendale volta ad aumentare il valore dei servizi e ad avvicinarsi a quella concordia sociale, che ai miei occhi di bambino vedevo come ipocrita, ma che ai miei occhi di imprenditore vedo come possibile.